OPERATORI SANITARI ED OBBLIGO VACCINALE – ESENZIONE TEMPORANEA PER CHI È GUARITO DAL COVID-19?

Sono ormai numerosi i casi affrontati dalla giurisprudenza di merito sul tema dell’obbligo vaccinale contro il virus SARS-CoV-2 gravante su medici, infermieri ed operatori sanitari in genere come disposto dall’art. 4 del D.L. 44/2021 approvato il 1° aprile scorso e convertito in Legge n. 76/2021 a fine maggio. Com’è ormai noto, le norme in parola dispongono che il datore di lavoro, una volta verificato di non potere adibire il proprio dipendente ad altre mansioni (anche inferiori) che non prevedano il contatto con pazienti ed assistiti, può disporne la sospensione dal servizio (e dalla retribuzione) del proprio dipendente non vaccinato fino a vaccinazione avvenuta ovvero fino al termine dell’obbligo vaccinale stesso, e cioè il 31 dicembre prossimo. Le sentenze e le ordinanze su questo tema (Tribunale di Belluno, 06 maggio 2021, n. 328; Tribunale di Modena, Sez. 3 Civile, 19 maggio 2021; Tribunale di Verona, Sez. Lav., 24 maggio 2021, n. 446; Tribunale di Modena, Sez. Lav., 23 luglio 2021, n. 2467; Tribunale di Roma, Sez. 2 Lav., 28 luglio 2021, n. 18441, Tribunale di Bolzano, Sez. Lav., 20 agosto 2021) sono caratterizzate da giurisprudenza costante: i ricorrenti hanno per ora fatto leva principalmente su due temi e cioè da una parte un asserita “carenza di informazione” generale sul tema della “composizione” dei vaccini, dall’altro una presunta incostituzionalità dell’art. 4 del D.L. 44/2021. Entrambe le tesi sono state decisamente respinte e, a parere di chi scrive, con buona ragione da parte dei giudici interpellati.

In questo articolo non analizzeremo però le presunte “ragioni” dei cosiddetti “no-vax” o di coloro che nutrono ancora dubbi su sicurezza e/o efficacia dei diversi vaccini anti-SARS-CoV-2, ma ci si concentrerà piuttosto su quei casi in cui è la legge stessa a prevedere la non sospensione del soggetto che non possa vaccinarsi per motivi di salute. Il comma 2° dell’art. 4 del D.L. 44/2021 stabilisce infatti che gli operatori sanitari che dimostrino con apposito certificato rilasciato dal Medico di Medicina Generale (“medico di famiglia” o “guardia medica”, quindi) una “grave condizione clinica” non siano assoggettabili all’obbligo vaccinale, oppure possano godere di un differimento del protocollo stesso. Si pensi a condizioni quali la piastrinopenia o l’ipercoagulazione, croniche o acute. Ovviamente, in questi casi, non si tratta di un rifiuto alla vaccinazione per una sorta di “contrarietà ideologica”, ma di una necessità di carattere clinico.

Ma c’è un punto sul quale la legge non è affatto chiara, anzi sul quale tace completamente. Come si deve comportare infatti il datore di lavoro “sanitario” di fronte a quei lavoratori che non si siano ancora vaccinati per avere contratto il SARS-CoV-2, per avere quindi avere sviluppato la malattia ed essere successivamente guariti, e cioè quei soggetti che, senza potere vantare una “grave condizione clinica” risultino effettivamente immunizzati, almeno temporaneamente? Ricordiamo che per la scienza medica chi è guarito dal COVID-19 risulta essere immune alla re-infezione ed alla propagazione del virus stesso per un lasso di tempo che risulta essere di circa 6/9 mesi: questa condizione è peraltro riconosciuta dallo stesso Ministero della Salute, tanto che chi è guarito dal COVID-19 è abilitato ad ottenere il cosiddetto Green Pass – valevole per 9 mesi (ma si sta già parlando di ampliare tale validità a 12 mesi) – al pari di chi abbia completato il ciclo vaccinale.

In questo caso, a parere di chi scrive, l’eccezione prevista al 2° comma può e deve essere interpretata nel senso che la guarigione dal COVID-19 possa essere intesa come circostanza che consente il differimento dell’inoculazione del vaccino. L’importante è che il soggetto in questione si sia premurato di ottenere uno specifico certificato dal proprio “medico di famiglia” che ne attesti la guarigione dal COVID-19 e che indichi un periodo di tempo di attesa (normalmente si tratta di 6 mesi) prima dell’effettuazione della vaccinazione.

La verifica di ciò dovrà avvenire a cura dell’ASL/ATS e – a norma del 5° comma dell’articolo in analisi – quando lo stesso ente sanitario avrà contattato il lavoratore per opportuna verifica e per sentire le eventuali ragioni della sua non vaccinazione: in tale frangente, al fine di evitare la segnalazione al proprio datore di lavoro, il lavoratore dovrà assicurarsi di potere dimostrare la propria condizione di soggetto immune in quanto guarito e cioè di soggetto che, per il parere del Medico di Medicina Generale, debba attendere un congruo periodo di tempo prima di iniziare la procedura vaccinale. Un lavoratore immune, per quanto non grazie alla vaccinazione (come già detto sopra anche lo stesso Ministero della Salute fa una equivalenza tra soggetti vaccinati e soggetti ammalatisi e poi guariti), potrà quindi essere serenamente adibito alle proprie consuete mansioni di cura ed assistenza

In tutto questo si sottolinea però una stortura: alcuni operatori sanitari ancora non vaccinati saranno in grado di evitare la segnalazione al proprio datore di lavoro – e quindi di evitare la sospensione – semplicemente dimostrando all’ASL/ATS (entro 5 giorni dalla ricezione della comunicazione di cui al già citato 5° comma) di avere provveduto a prenotare la prima dose di vaccino. In tal caso la procedura prevista dal D.L 44/2021 si ferma, e l’operatore sanitario (evidentemente ancora non immunizzato) potrà continuare a svolgere le proprie mansioni sul posto di lavoro: questo, magari, al contrario del lavoratore che non abbia provveduto a prenotare la propria vaccinazione perché, come nel caso di cui sopra, è guarito dal COVID-19 ed attende di sottoporsi alla vaccinazione dopo aver fatto trascorrere un certo periodo di tempo, così come da prescrizione medica. Nel caso in cui l’ASL/ATS abbia omesso questo tipo di controllo tramite la prevista procedura informativa e cioè non abbia provveduto a considerare come immuni i soggetti guariti dal COVID-19 da meno di 6 mesi, informerà il datore di lavoro che, potenzialmente, potrà procedere alla sospensione del lavoratore che si ritiene (a torto) potenzialmente “pericoloso” per sé e per i pazienti.

Il consiglio per i datori di lavoro, stanti le enormi difficoltà di elaborazione dei dati e delle informazioni che stanno evidenziando le ASL/ATS, è quello quindi di verificare assieme al lavoratore stesso la sua condizione specifica: se si tratta di un rifiuto alla vaccinazione dovuto a questioni inerenti ai dubbi sul vaccino o sulla presunta costituzionalità della norma in questione, allora la sospensione diventa un atto sostanzialmente dovuto. Ma se, al contrario, il lavoratore può indirettamente dimostrare di essere immunizzato (per quanto temporaneamente) in virtù della sequenza malattia/guarigione certificabile attraverso il già citato parere scritto del Medico di famiglia e, pure, per mezzo dell’esibizione del Green Pass, allora la sospensione non potrà essere un’opzione percorribile proprio perché si procederebbe, in caso contrario, ad estromettere dal luogo di lavoro un soggetto che non costituisce un pericolo dal punto di vista epidemiologico. Pertanto, prudenza e attenzione, con un’attenta analisi di ogni singolo caso, si rendono più che necessarie al fine di evitare trattamenti sperequati o illogici, mentre sono vivamente sconsigliate prese di posizioni “automatiche” sulla scorta della semplice segnalazione dell’ASL/ATS.

Certo, il legislatore, al fine di meglio tutelare i diritti che s’incrociano sul tema dell’obbligo vaccinale, avrebbe potuto attuare una ben più efficace azione di “deregolamentazione” licenziando una “norma quadro” che riferisse poi a linee guida tecnico/scientifiche da pubblicarsi sul sito del Ministero della Salute, analogamente a quanto fatto con il cosiddetto “Codice dell’Amministrazione Digitale” il quale, per l’appunto, prevede continui rimandi alle aggiornate linee guida tecniche dell’Agenzia per l’Italia Digitale (AGID). Ma ciò non è avvenuto: un’ennesima occasione sprecata dal nostro legislatore che non ha colto la necessità di tenere aggiornate le norme sul tema della pandemia attraverso una tecnica di redazione legislativa che ha già dimostrato la propria indubbia efficacia.