Recentemente mi è capitato di dovermi nuovamente occupare del tema del compenso forfettario per lavoro straordinario ovvero quella parte della “busta paga” che, molto spesso, viene descritta come “Mancato Limite Orario” (MLO) od altre locuzioni equivalenti.
In sintesi si tratta – nelle intenzioni del datore di lavoro – di un riconoscimento di natura economica che opera il più delle volte “automaticamente” e che viene corrisposto invariabilmente mese per mese, senza che vi sia un controllo puntuale ed effettivo della misura oraria delle prestazioni lavorative del dipendente. Insomma: il lavoratore, a conti fatti, riceve l’emolumento ulteriore aldilà dell’effettiva prestazione lavorativa oltre il normale orario di lavoro.
Tralasciando ogni considerazione generale in merito all’istituto del lavoro straordinario, in questa sede si cercherà di riflettere sui punti critici di questo “accessorio contrattuale” al fine di fornire a una breve guida pratica che consentirà al datore di lavoro che desidererà avvalersene di evitare di incorrere in abusi ed erronee applicazioni. Ricordiamoci infatti che non esiste una regolamentazione normativa e contrattuale su questo tema.
Un aspetto che si deve assolutamente evitare quando si intende liquidare in maniera forfettaria gli straordinari è quello di utilizzare il c.d. “MLO” come una sorta di “comodo e semplice” sistema per risparmiare sugli straordinari in modo da avere, come contropartita, il dipendente (quasi sempre) a disposizione oltre il normale orario di lavoro. A parere di chi scrive questo accessorio contrattuale, invece, trova la sua corretta applicazione solamente quando, aldilà di un utilizzo entro i limiti massimi dello straordinario (in particolare: le 250 ore annue), venga attuato in quelle lavorazioni dove non sia possibile rilevare l’esatta portata oraria della prestazione ovvero dove ciò diventi alquanto complesso (se non proprio impossibile) dal punto di vista pratico. Un esempio concreto – che fa propendere per la corretta applicazione dell’”istituto” – è quello che riguarda quei lavoratori dipendenti che si trovino in unità produttive distaccate ovvero che si occupino di prestazioni discontinue ove sia molto difficile determinare quale sia il tempo dell’effettiva prestazione lavorativa e quello per lo spostamento (senza che si tratti, però, di trasfertisti) o per la preparazione della prestazione. Si pensi, per ipotesi, al responsabile commerciale di un ufficio che, per la natura stessa delle proprie mansioni, si trova spesse a lavorare fuori sede in modo anche discontinuo ovvero ad affrontare trasferte (brevi o lunghe che siano) inattese e scarsamente preavvisate.
Il rischio che si correrebbe concretamente, se invece l’applicazione del MLO avvenisse “sic et simpliciter” per un proprio lavoratore dipendente (esempio classico: per un comune impiegato d’ordine o per un operaio specializzato), è quello di dovere poi riconoscere l’emolumento aggiuntivo come un vero e proprio superminimo contrattuale. In tale caso, infatti, la parte “aggiuntiva” del compenso lordo (e “marcata” nel cedolino come MLO o simile) sarebbe da considerarsi come una parte del tutto slegata dalla prestazione lavorativa oraria con l’ulteriore rischio di dovere ricalcolare puntualmente lo straordinario effettivamente prestato comprese le opportune maggiorazioni. Conseguenza che, peraltro, è quella che è stata stabilita, sul tema, dalla Sentenza della Corte di Cassazione n. 4 del 5.1.2015. I giudici di legittimità, a mio modesto parere correttamente, hanno infatti ritenuto che non fosse possibile “trasformare” in questo modo la prestazione di qualsiasi lavoratore in un qualcosa che si avvicinasse molto – temporalmente – alla peculiare prestazione dovuta dai lavoratori “apicali” ovvero da coloro che rivestono una funzione dirigenziale. Il concetto generale, imprescindibile, è infatti questo: l’impiegato e l’operaio dovranno, in linea di massima, essere retribuiti in proporzione alla quantità di tempo utile che mettono a disposizione del datore di lavoro. Solo i dirigenti, contrattualmente e tipicamente, sono lavoratori dipendenti del tutto slegati dal rispetto dell’orario di lavoro.
Ecco allora che, al di fuori dei casi in cui non sia possibile applicare forme di flessibilità come la c.d. “banca ore” (con adeguati recuperi orari e riposi di carattere compensativo) ovvero dove vi sia quella già citata difficoltà pratica della rilevazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa, è sempre preferibile evitare di determinare forfettariamente l’importo dovuto per la retribuzione straordinaria.
Per ultimo, ma non da ultimo, al fine di evitare rivendicazioni ulteriori da parte del lavoratore ovvero sanzioni da parte dei preposti organi ispettivi, suggerisco altresì di regolamentare un tale “accessorio contrattuale” sempre in forma scritta (es.: lettera destinata al lavoratore e successivamente controfirmata per accettazione) e – soprattutto – prevedere per esso una durata determinata o, per lo meno, determinabile.
Vi deve quindi essere – come per tutti gli altri istituti giuslavoristici non direttamente regolamentati dal diritto positivo e colpevolmente tralasciati dalla pattuizione collettiva – un’applicazione caratterizzata da buon senso e proporzionalità che tenga conto delle caratteristiche concrete della prestazione lavorativa (eventuali turni, luogo di lavoro, distanza dal “centro di controllo datoriale”), dell’importo del “mancato limite orario”, della frequenza del suo riconoscimento, e della durata – come detto da ultimo – della sua applicazione.