IL LICENZIAMENTO DEL DIRIGENTE AL TEMPO DEL COVID-19

La decretazione d’emergenza che ha caratterizzato il panorama legislativo soprattutto nella prima fase del periodo di lockdown deciso per contrastare il diffondersi del “Nuovo Coronavirus” ha avuto un importante impatto sul diritto del lavoro, tanto negli aspetti sostanziali quanto in quelli procedurali.

Tralasciando i notevoli problemi di “raccordo” con altre norme, la discutibile tecnica redazionale e senza analizzare i pur importanti temi relativi agli istituti di legislazione sociale (con l’estensione praticamente generalizzata della Cassa Integrazione Guadagni) ed alla sospensione dei termini processuali con l’interessante corollario relativo alla eventuale decadenza dall’impugnazione del licenziamento (e non solo), questa breve analisi si concentrerà su un aspetto particolare del cosiddetto “divieto di licenziamento” afferente alla categoria dei dirigenti.

Come è noto ormai non solo agli operatori interessati alla gestione ed all’amministrazione del personale, la norma di riferimento è quella contenuta nell’art. 46 del D.L. n. 18 del 17 marzo 2020 (“Decreto Cura italia”): nonostante fosse rubricato come “Sospensione delle procedure di impugnazione dei licenziamenti” (l’errore è stato poi emendato in sede di conversione), tale articolo prevedeva e prevede precise limitazioni alla risoluzione del rapporto di lavoro. In breve, per tutto il periodo stabilito, il datore di lavoro non può cominciare procedure di licenziamento collettivo ex l.n. 223/1991 né proseguire con quelle pendenti che, di fatto restano sospese, e – cosa che più interessa a noi in questo frangente – non può nemmeno procedere a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.

Rispetto ai licenziamenti individuali, l’art. 46 del “Cura Italia” dispone che fino alla scadenza del termine previsto (inizialmente si trattava di un termine di 60 giorni, prolungato poi fino al 17 agosto del D.L. n. 34 del 19 maggio 2020 – ma il termine verrà prorogato quasi sicuramente al 31 dicembre 2020 per le imprese che utilizzano la Cassa Integrazione come da voci di corridoio sul prossimo “Decreto d’Agosto”) il datore di lavoro “…indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604.”. La norma, pertanto, pare escludere piuttosto recisamente la categoria dei dirigenti la quale – com’è noto ed indiscutibile – non beneficia né della tutela legale contro il licenziamento ingiustificato di cui alle Legge 604/1966, né di quella di cui all’art. 18 della Legge n. 300/1970. Infatti, le tutele riservate ai dirigenti nel caso in cui venga ravvisata l’illegittimità del provvedimento di risoluzione sono contenute negli artt. 2118 e 2119 c.c. e nelle eventuali norme specifiche contenute nella contrattazione collettiva dalle quali discende il cosiddetto requisito della “giustificatezza” che, senza pretesa di precisione accademica ma con uno sguardo rivolto sempre alla pratica del lavoro, potremmo definire come una sorta di giustificato motivo oggettivo attenuato o depotenziato.

E quindi: possono i dirigenti essere licenziati anche prima della cessazione della vigenza delle straordinarie norme “di blocco” in commento?

La lettera di cui ai decreti “Cura Italia” e “Rilancio” già citati parrebbero sfavorire questa particolare categoria di lavoratori apicali consentendone il licenziamento per “motivi economici”, ovviamente sempre se soddisfatti quei minimi requisiti rappresentati dal principio di giustificatezza. Non c’è dubbio: le tutela della “604” e dello “Statuto dei Lavoratori” non sono estendibili ai dirigenti.

Per contro, in assenza di un auspicabile chiarimento normativo (quanto pesa la scarsa capacità redazionale del legislatore in questo frangente!), si potrebbe invece pensare che – visto che la ratio della norma in parola è quella di evitare la cancellazione di posti di lavoro in un periodo emergenziale come quello che stiamo tutti vivendo – anche il dirigente possa godere di una tutela che blocchi il licenziamento almeno fino alla fine dell’anno corrente.

Come già suggerito da altri commentatori, ciò potrebbe valere per quei dirigenti che non sono in realtà lavoratori (dipendenti) “apicali” e che, grazie all’elaborazione giurisprudenziale prevalente (da ultimo vedi Cass. n. 7295/2018), possono godere della tutela generale prevista dalla legge 604/1966 e dall’art. 18 dello “Statuto dei Lavoratori”. Si parla quindi di “pseudo-dirigenti” ovvero quei dirigenti (praticamente tali solo formalmente e… di stipendio!) che non sarebbero l’alter-ego dell’imprenditore. Inoltre: in fin dei conti i dirigenti non sono stati esplicitamente esclusi dall’applicazione della Cassa Integrazione in Deroga, al contrario di altre categorie particolari di lavoratori come, ad esempio, i lavoratori domestici. Tuttavia, a parere di chi scrive, tale tesi – fondata su questi due aspetti appena accennati e volta a contrastare la granitica formulazione delle norme in analisi – non farebbe altro che spostare il problema sulla ondivaga definizione di dirigente: e, a ben pensarci, questo aspetto non aiuta l’operatore del diritto a compiere la sua scelta con serenità, lasciandolo, come spesso accade nel nostro settore, a brancolare in una “zona grigia” priva di approdi sicuri. Sappiamo infatti fin troppo bene quanto sia difficile comprendere la reale portata della distinzione operata dalla giurisprudenza tra dirigenti “reali” e “pseudo-dirigenti”.

La soluzione pratica, pertanto, in particolar modo in questo periodo di incertezza generale e valida per quelle imprese per le quali opererà ancora il “blocco” dei licenziamenti, può essere rappresentata da una trattativa ancor più concentrata sulle ipotesi conciliative che, gioco forza, porteranno il datore di lavoro a pagare un “prezzo” più alto al fine di tutelare la propria scelta strategica di contrazione della propria forza-lavoro apicale.

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