L’appalto di manodopera è, senza ombra di dubbio, uno dei temi più dibattuti nell’ambito dell’intero diritto del lavoro. Infatti, sono davvero tante le società (spesso organizzate in forma di cooperativa) che rendono i propri servizi quali fornitrici di manodopera ad altri operatori economici i quali sono alla ricerca di forza lavoro più flessibile (ovviamente in uscita) e di un costo minore rispetto al classico rapporto di lavoro subordinato. Com’è facile intuire in diversi casi questi appalti non presentano i necessari profili di liceità, e le società coinvolte rischiano sanzioni non propriamente lievi.
Le elaborazioni giurisprudenziali e dottrinali sul tema non mancano, così come alcuni punti “critici” e di difficile interpretazione pratica. E tuttavia, in breve: quando possiamo ritenere di trovarci dinanzi ad un appalto “lecito”? In quali casi un datore di lavoro può lecitamente appaltare parte del proprio personale ad un altro soggetto senza rischiare di subire le conseguenze legali di tale illegittima interposizione?
Innanzitutto, occorre ricordare come, a norma dell’art. 1655 c.c., l’appalto sia quel contratto tramite il quale una parte (appaltatore) assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro, a favore di un’altra parte (committente o appaltante). Inoltre, con particolare riferimento alla materia lavoristica ed in applicazione dell’art. 29, comma 1, del D.Lgs. 276/2003, il contratto di appalto si distingue dalla somministrazione di lavoro per l’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione all’opera o al servizio commissionati, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per l’assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa.
Ma non solo. Infatti, si possono elencare altri e più specifici elementi qualificatori dell’appalto “genuino” (e cioè “lecito”) in ambito giuslavoristico. In particolare, mi preme evidenziare 5 punti salienti che, se ben applicati in concreto e riconosciuti, possono realmente aiutare ogni datore di lavoro a districarsi nella pericolosa selva rappresentata dall’istituto in questione.
1) l’appalto deve prevedere la realizzazione di un’opera oppure, in alternativa, l’esecuzione di un servizio.
Con maggiore precisione si può quindi dire come l’oggetto dell’appalto (tanto nel caso riguardo la realizzazione di un’opera, quanto riguardi la prestazione di un servizio) debba essenzialmente riguardare un’attività che, rispetto a quella esercitata imprenditorialmente dall’appaltante, sia solamente accessoria e non, nei fatti, parte del c.d. “core business” dello stesso appaltante, ovvero l’oggetto specifico (ovvero uno degli oggetti) dell’attività imprenditoriale dello stesso.
Occorre quindi verificare che il personale dell’appaltatrice non sia inserito stabilmente a tutti gli effetti nel ciclo produttivo di quest’ultima. Cioè: è possibile scindere esattamente la prestazione fornita dai lavoratori appaltati rispetto all’intero ciclo produttivo dell’appaltante? Solo se la risposta a questa domanda risultasse affermativa, allora l’appalto potrebbe essere considerato genuino. Esempi classici sono quelli del servizio di manutenzione ordinaria dell’impiantistica, quello del facchinaggio o della cura del verde.
2) deve essere svolta un’indagine in merito alla sussistenza dell’organizzazione dei mezzi di produzione da parte dell’appaltatore, vale a dire la predisposizione e l’utilizzazione di beni strumentali (es.: macchinari e attrezzature, impiego di capitali propri o di investimento, ecc…) e/o di beni immateriali (quali know-how, professionalità, competenze specifiche e specializzate, ecc…) propri.
3) Occorre inoltre che sia identificabile il c.d. “rischio d’impresa” in capo all’appaltatore, che in ogni caso non può essere considerato come il mero rischio di non ricevere il corrispettivo concordato per l’esecuzione dell’opera o del servizio.
Rispetto a questo specifico requisito, invero alquanto “impalpabile” dal punto di vista interpretativo, ci viene in soccorso la Circolare n. 5 del 11.02.2011 del Ministero del Lavoro che ha specificato che, in capo all’appaltatore, debbano sussistere:
– l’esercizio di un’attività imprenditoriale (con questo includendo però anche le attività a rilevanza economica svolte dalle cooperative);
– lo svolgimento di una comprovata attività produttiva;
– e, infine, la c.d. pluricommittenza.
4) L’effettivo esercizio dei poteri di eterodirezione sui lavoratori appaltati da parte dell’appaltatore; ciò significa che, inequivocabilmente, le direttive generali in merito all’esecuzione delle mansioni concrete che verranno svolte dai lavoratori appaltati, debbono procedere direttamente dall’appaltatore il quale deve necessariamente rappresentare il “filtro” tra la manodopera appaltata e l’appaltante.
5) Il comprovato livello di specializzazione e conoscenza del settore dell’appaltatore (da intendersi come “qualità imprenditoriale intrinseca” e non come caratteristica specifica meramente da ascriversi ai singoli lavoratori appaltati), tanto che il D. Lgs. 81/2008, specificatamente all’art. 26, comma 1, lett. a), impone al committente la verifica dell’idoneità tecnico-professionale dell’appaltatore (si badi bene: non tanto dei singoli lavoratori appaltati) in relazione ai lavori, ai servizi ed alle forniture da affidare in appalto.
In mancanza dei generali requisiti di autonomia e genuinità qui sopra spiegati, l’appalto è da ritenersi illecito.
Per completare il breve quadro qui proposto mi preme segnalare un paio di interessanti pronunce della Corte di Cassazione.
La Sentenza 26 ottobre 2018, n. 27213 (che, peraltro, richiama direttamente l’orientamento delle precedenti sentenze Cass. n. 5648 del 2009, Cass. n. 18281 del 2007 e Cass. n. 14302 del 2002) afferma che “…il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro in riferimento agli appalti “endoaziendali”, caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, oper[a] tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore / datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo [enfasi aggiunta].”
Pertanto, l’organizzazione della prestazione lavorativa deve essere concretamente ed oggettivamente organizzata da parte dell’appaltatore; questi, in pratica, non può essere del tutto “a digiuno” del mestiere dell’appaltante ma, piuttosto, essere un operatore che, in quel determinato settore, possa teoricamente raggiungere un determinato obbiettivo produttivo in piena autonomia.
Infine, vorrei ricordare la recente sentenza n. 20414 del 29 luglio 2019. In essa si può leggere che “…l’appalto di opere o servizi espletato con mere prestazioni di manodopera è lecito purché il requisito della “organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore”, previsto dall’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, costituisca un servizio in sé, svolto con organizzazione e gestione autonoma dell’appaltatore, senza che l’appaltante, al di là del mero coordinamento necessario per la confezione del prodotto, eserciti diretti interventi dispositivi e di controllo sui dipendenti dell’appaltatore; per verificare la genuinità del contratto d’appalto, possono senz’altro richiamarsi i principi espressi dalla giurisprudenza formatasi nella vigenza della legge n. 1369 del 1960, ed in particolare, va ricordato che questa Corte ha affermato che, qualora venga prospettata una intermediazione vietata di manodopera nei rapporti tra società dotate entrambe di una propria organizzazione, ciò che è essenziale, per la sussistenza di un vero e proprio contratto di appalto, è che i lavori appaltati siano effettivamente svolti da un soggetto che abbia concretamente la forma e la sostanza di una impresa [enfasi aggiunta], sia con riguardo al profilo tecnico, sia sotto l’aspetto strettamente economico ed organizzativo.”
C’è davvero da chiedersi quante società cooperative “di servizi” – che altro non fanno che fornire manodopera per appalti anche di durata medio-lunga – possano vantare tale forma e sostanza di impresa. In tal senso, al fine di tutelare i diritti dei lavoratori ed il principio di libera concorrenza tra le imprese, sarebbe più che auspicabile una maggiore attenzione sul tema da parte degli organi ispettivi.